venerdì 23 settembre 2011

L'altro giorno ho visto un gatto morire

Raramente ci capita di incontrare la morte per strada.
Per quanto possa sembrarci assurdo, se paragoniamo le nostre città a quelle indiane, ad esempio, le riscopriremo improvvisamente pulite, profumate e ordinate. 

Strade di Mamallipuram, Tamil Nadu. Foto di Daria Mascotto, 2011.

A partire dal XIX secolo le innovazioni igieniche in campo alimentare hanno portato all'espulsione graduale e sistematica di morte e decomposizione dalle nostre città. 
Una data per tutte, 1810: espulsione dei macelli dalle mura di Parigi, fra le prime capitali europee ad adottare questo tipo di misure sanitarie, allo scopo di ridurre malattie e infezioni e per consentire un maggiore controllo sulla qualità delle carni.



Non l'acredine della fogna, non la puzza della verdura che marcisce al sole, non l'urlo degli animali accompagnati al macello. Lentamente l'idea che tutto può essere congelato nel nostro frigorifero ultimo modello si sostituisce alla consapevolezza che tutto va e viene. Gli animali non sono più nostri compagni, non vivono più in mezzo a noi, sporcando di sterco le nostre strade, portando con sé mosche e odore di cuoio e stalla. 
La mucca è nel nostro immaginario una signora gentile, magari dal manto lilla, che vive serena e indisturbata fra le verdi montagne svizzere. Non è la stessa cosa che mangiamo! No di certo.
Noi non mangiamo animali, ma bistecche. In loro non c'era vita, non l'abbiamo mai vista. C'è solo un pallido residuo di freddo rosso, avvolto in plastica trasparente e appoggiato sopra un bianco vassoietto croccante. Non c'è nulla di tremendo in questo. Non c'è la morte in questo. Non c'è la separazione, non il sacrificio.
La morte è in esilio, ben rinchiusa oltre le porte del quotidiano. Se ne occupano specialisti del settore. Medici e veterinari. Per tutti gli altri vale la regola: non invecchieremo mai, non moriremo mai. D'altra parte niente ci induce a crederlo.

Eppure, alle volte, l'ineluttabile si rivela con tutta la sua potenza. Il tempo divoratore si para dinnanzi ai nostri occhi impotenti e ci lascia disarmati e piccoli come granelli di polvere.


Sembrerà sciocco, ma l'altro giorno ho visto un gatto morire per la strada.
Era una giornata splendida. Di quei cieli settembrini tersi e larghi, azzurri. Il sole ancora caldo, dalla luce non più bianca, estiva, ma autunnale, aranciata. Una meraviglia.
Esco in bicicletta e mi lascio svegliare dall'aria freddina, fino alla metropolitana rossa, che mi porterà dall'altra parte di Milano.
Lego la bici e voltando la testa i miei occhi vedono una scena che la mia mente non intende immediatamente, ma solo dopo alcuni secondi che mi sono parsi secoli.
In mezzo alla strada c'è un gatto bianco con la schiena tigrata di grigio che si rotola, stira le zampe, le allunga, come in un attacco di epilessia. 
Continuo a guardarlo perché non capisco. Ad un certo punto intravedo il rosso vermiglio sul suo muso e istintivamente mi salgono le lacrime fra le palpebre e mi guardo intorno in cerca di aiuto. 
Tocco il braccio di un ragazzo con le cuffie sulle orecchie. Lui se le leva e guarda. "Non c'è un veterinario qui vicino?". (Pazzesco, ma nessuno osa toccare il gatto. Prenderlo, toglierlo dalla strada!)
Vado a chiedere. Nessuno mi dà troppo attenzione, così torno. 
Lui ha smesso di muoversi. Ha gli occhi spalancati e il muso in una pozza di sangue scuro e ancora vivo. Mi copro la bocca con le mani, non possiamo più fare niente. (Come se mai avessimo potuto fare qualcosa.) 


Kartari mukha mudra - marana hasta (morte).
Daria Mascotto


Un altro ragazzo si avvicina, il primo deve andare a lavorare. Andiamo insieme a cercare la portinaia del palazzo di fronte. Anche io devo andare a lavorare, ma non possiamo lasciarlo lì, così. Eppure non possiamo nemmeno toccarlo (paura di essere contaminati dalla morte?), non è neppure il nostro gatto, in fondo. 
La portinaia sentenzia: "Bisogna chiamare l'AMSA". Specialisti della decomposizione.
Se ne occupa lei, possiamo stare tranquilli. Forse mi vede un po' sconvolta, perché mi suggerisce, prima di tornare alla mia vita normale, di bermi un bel caffè (per dimenticare?). Chissà che strano potere ha il caffè...

giovedì 8 settembre 2011

Il rumore della luce

8 luglio 2011. Sveglia alle sei. Tuk tuk fino alla stazione dei bus.
Al mattino presto Pondicherry è ancora una cittadina tranquilla e quasi silenziosa.

Bus Pondicherry-Chidambaram. Foto di Daria Mascotto, 8 luglio 2011.

Solo il giorno prima le strade buie e disseminate di ostacoli, i clacson continui e la mia improvvisa incapacità di attraversare la strada, le tempie pulsanti per la stanchezza e gli sbalzi termici fra l'hammam esterno e l'aria condizionata a temperature artiche degli interni, mi avevano fatta sprofondare in una disperata voglia di non essere mai partita.
Disagio da straniera e mille paure all'assalto dei miei pensieri.

Prendo posto accanto all'autista, sul sedile del controllore. Ma ancora non lo so.
Sono in India da neanche due giorni.
Due ore di sballottamenti, strombazzamenti da sirene di transatlantici e lacrime mute di lontananza.

Arriviamo. Chidàmbaram è caotica e caldissima ormai: sono già le 10 e il solleone è alto e terribile.
Ci avviamo al Nataraja Mandìr - tempio di Shiva, re della danza - fra le puzze indiane.
Entriamo, sudate e spaesate.
Ci sono molte persone, molti pellegrini dai gesti sconosciuti. 
I brahmini shivàiti chiacchierano nel primo recinto. Sono subito riconoscibili dalla jata, i capelli raccolti a cipolla in cima al cranio e rasati per metà, da sopra le orecchie alla nuca. Sembrano tanti gabber in attesa del rave mistico. Tutti con il cellulare in mano o infilato nel dhoti. Ecco, la tecnologia onnipresente ci ricorda che non siamo precipitate in un mondo parallelo e medievale: siamo proprio nel XXI secolo.

Il tempio è ombroso, cupo.
La gente attende davanti al pràkara più interno e sacro il momento della puja di mezzogiorno. Siede, chiacchiera, intreccia ghirlande di fiori. Oppure compie il giro dei tanti cantucci che ospitano i membri della sacra famiglia del Nataraja -  Ganesha, il dio elefante; Pàrvati, la figlia della montagna. Nandi, il toro sacro - e a ciascuno offre doni, sperando di essere ricambiata.

Siamo le uniche occidentali e tutti ci osservano curiosi almeno quanto noi osserviamo curiose loro.
Incontriamo un solo ragazzo francese, disorientato pure lui.

Gopuram Est, Nataraja Mandir, Chidambaram.
Foto di Daria Mascotto, 8 luglio 2011.
Fuori dalla seconda cerchia di mura, nel primo cortile, il sole è abbagliante. Le pietre su cui camminiamo scalze, sono specchi roventi che riflettono la luce che vibra intensamente dall'alto e dal basso, assordandoci.
Tra mezzogiorno e trenta e le quattro il tempio si richiude nel suo ombroso silenzio per il riposo pomeridiano, lasciando i devoti in balìa del frastuono di Surya e dei suoi cavalli infuocati. Tutti cercano tregua tra le colonne più ariose, per mangiare o dormire in terra.

Siamo alla deriva in un oceano di luce. 
Eppure dobbiamo apparire molto buffe, strambe come siamo: bianche vestite all'indiana che ripassano coreografie di Bharata Natyam nell'attesa che si riaprano le porte. 
Qualcuno viene a parlare con noi. Ridiamo tanto, in una lingua franca non verbale, mischiata a inglese e tamìl. Rientriamo così nel palazzo di Shiva di buon umore. Anche la luce è cambiata. Il sole è sceso lasciando l'aria più quieta.
La danza del tempio ricomincia. Nuove ghirlande, nuove carezze di curcuma e ghee, nuovi saluti ad Agni a mani giunte. 
Nuova attesa. Nuova presenza. Nuovo stare. 
Ecco cosa dobbiamo imparare dall'India, questo luogo così lontano da tutto ciò a cui siamo abituate. A stare. Stare al centro, mentre tutto intorno vortica di opposti.
In equilibrio tra l'entusiasmo e la disperazione, tra il silenzio dell'ombra e il rumore della luce.

Sulla carretta del ritorno cantiamo e danziamo, sporche e sudate, meno sole.

lunedì 5 settembre 2011

Gana Vandanam

Seguire la via del Bharata Natyam Yoga è la costante ricerca del dare ritmo alle emozioni.

Il suono di Siva fa fremere il petto e gli occhi si spalancano.
Il tala nei piedi rapisce la mente.
Il sonno e la luce balenano insieme.
Il tintinnio delle cavigliere e i colori delle vesti sono gioia che trabocca.
Grazie a tutti coloro che, ancora oggi, vivono vibrando.
Aum.


Shiva Nataraja, particolare. Foto di Daria Mascotto, 2011.

martedì 16 febbraio 2010

Magnagatt rinnegati


Chiudo il computer.
Sto preparando i prossimi post per il blog di Mora e Riccio, quello sull'alimentazione, quello per i bambini.
Alzo il volume della radio arancione, appoggiata alla mia sinistra. Mentre lavoro, la tengo con il volume basso basso, appena percettibile.
Mi sollevo dalla sedia e mi dirigo verso il frigorifero. In effetti il mio stomaco inizia a brontolare, ma oggi ci vuole fantasia: non faccio la spesa da giorni e le provviste disponibili si concentrano in qualche foglia di cavolo nero, quattro carote mollicce, semi di girasole, e qualche avanzo di formaggio.
Insomma, metto su l'acqua: mi decido per una pasta con cavolo nero saltato in padella con qualche semino e un paio di cubetti di gorgonzola piccante.
Alla radio Passatel, la Milano di sinistra e dintorni che telefona per fare i suoi annunci (vendo, regalo, scambio, cerco).
Intanto tagliuzzo il cavolo piccolo piccolo.
Non seguo attentamente la trasmissione. Mi limito a godere del vociare indistinto che mi permette di perdermi nei miei pensieri senza accorgermene.
Ad un tratto, però, una frase mi cattura. Proprio lì. Proprio mentre sono alle prese con il mio coltello, la mia verdura e il mio sale da cucina.
Un'ascoltatrice ha telefonato per avvisare che "alla prova del cuoco hanno appena proposto una ricetta per cucinare i gatti!".
Cosa? Il mio primo pensiero è che sia uno scherzo. Figurati, penso. E poi La Prova del Cuoco è un programma per signore, penso.
Alla radio la reazione è simile. Sulle prime non ci si crede.
Poi scatta l'indignazione.
Cucinare gatti?
Ma non si fa! I gatti non si mangiano. E parlarne in televisione è una vergogna!
Certo, gli italiani sono sempre stati delle buone forchette, ma siamo pure amanti degli animali!
Beh... almeno di quelli domestici.
E via con il polverone!
L'intervento incriminato è quello del giornalista Bigazzi (il video si può guardare qui http://www.youtube.com/watch?v=VoD7E3hGwu0). Il viso della conduttrice è a dir poco eloquente. Non ascolta. E' incredula. Si guarda intorno in cerca di aiuto. Ripete "Otello no!".
I telespettatori sconvolti, le proteste dei Verdi e dell'ENPA. Infine la sospensione di Bigazzi.
Non c'è via d'uscita. Condanna unanime.
Eppure i gatti si mangiavano durante la guerra, quando non c'erano salsicce, polli o costolette di agnello a disposizione.
Perché le ricette a base di maiale, vacca, ovini, caprini, polli e così via non destano scalpore e anche solo il ricordo di un pasto a base di gatto ci indigna a tal punto?
Il gatto è per noi un alimento estremo (vedi post del 13 dicembre 2009 e precedenti).
Al contario ci cibiamo senza colpo ferire di rane, lumache, conigli e cavalli. L'idea di mangiare di questi ultimi, ad esempio, scatenerebbe fra Inglesi e Americani una reazione di disgusto pari a quella che proveremmo noi al pensiero di cucinare il nostro cane (animale perfettamente commestibile, consumato in molti paesi asiatici).
Certo, potendo scegliere...
Ma certe volte, nella storia, non si è potuto scegliere ("chi non ha ciccia, mangia i gatti") e potrebbe succedere ancora.
Ci vergogniamo di essere stati poveri? Ci vergogniamo dei nostri nonni che hanno vissuto in epoca di guerra? Dei partigiani e dei contadini che hanno dovuto ricorrere ad alimenti degni di una belva e non di un uomo? Del fatto che abbiano provato (e forse ci siano riusciti) a trarre da questi pasti, al limite fra natura e cultura, un briciolo di piacere sensoriale, in momenti in cui era forse l'unico piacere possibile?
Perché non si può dire che i gatti hanno un buon sapore?
Probabilmente è vero.
E' anche vero che noi non avremo mai il dis/piacere di provarlo sulla nostra lingua.
Personalmente credo che quella di Bigazzi sia stata una provocazione, inaccettabile per molti, ma che dovrebbe invitarci a riflettere sul nostro passato senza censure.
Dopotutto, è vero che anche il Conte Ugolino è stato cacciato da Dante all'Inferno, ma per aver tradito i suoi compagni politici, non per aver divorato i suoi figli durante la prigionia! Il pensiero di quell'atto disperato ancora oggi scatena in noi non scandalo, ma rabbia, senso di ingiustizia e compassione.

venerdì 29 gennaio 2010

Modernità, luce e svago nella Parigi di fine Ottocento: Bal au Moulin de la Galette di Pierre-Auguste Renoir

Siamo nella seconda metà dell’Ottocento, tempi segnati ormai irreversibilmente dal rapido processo di sviluppo industriale avviatosi nel XVIII secolo. Le campagne si spopolano e quelli che furono contadini vanno ora ad ingrassare le periferie delle città, che si fanno sempre più estese. La geografia territoriale si modifica: nascono nuovi centri urbani, soprattutto in corrispondenza delle stazioni ferroviarie, villaggi che un tempo furono nodi commerciali perdono importanza, mentre altri ne acquisiscono.

Questa repentina nascita e crescita delle città non poté non influenzare direttamente architettura ed urbanistica: nuovi spazi, nuove esigenze, nuovi luoghi di lavoro e di socialità andavano progettati e realizzati in tempi brevi. Le arti in genere si arricchirono di nuovi impulsi.

La modernità fu la musa ispiratrice per eccellenza e portò con sé una ventata di cambiamento che travolse la percezione dell’artista rispetto a sé stesso, al suo lavoro, al suo pubblico e alla società intera. A questo proposito è necessario chiarire come le nuove frontiere del nascente capitalismo e del liberalismo selvaggio fossero alla base della mentalità e della realtà di fatto che si andavano affermando, in diretta contrapposizione e dialettica con la diffusione degli ideali socialisti ed anarchici.

Liberalismo e socialismo sono due concetti fondamentali per comprendere la produzione artistica della seconda metà del XIX secolo. Il libero scambio, infatti, aveva permesso a piccoli mercati privati di svilupparsi indipendentemente dai classici canali di comunicazione tra artisti e pubblico, come quelli delle esposizioni universali, accademiche ed ufficiali. Le opere potevano ora trovare nuove vie di circolazione in quanto, sempre più spesso e con facilità, erano considerate vera e propria merce. Questi nuovi circuiti commerciali andarono a creare una frammentazione del pubblico e, soprattutto, dei gusti, e insieme a stringere legami particolarmente saldi tra artista ed affezionati o estimatori.

Il cambiamento dei rapporti tra creatore e pubblico, dato dalla possibilità di sottrarsi alla mediazione delle autorità del settore, non può essere trascurabile in quanto permise agli artisti di sperimentare nuovi soggetti e nuovi linguaggi. Il distacco dai canoni accademici e classici e dalle convenzioni compositive diede infatti impulso ad un nuovo bisogno espressivo ispirato alla modernità. Modernità incarnata dalle grandi capitali europee, metropoli nascenti, che, con nuovi ritmi – velocità e movimento – e nuove percezioni – grandi folle, nuovi spazi – diventano il soggetto pittorico per eccellenza.

Se la metropoli affascina e incanta, allo stesso tempo spaventa e opprime, diventando sì una realtà da amare, ma anche da rifuggire. Ecco che all’opposto della città troviamo la natura intesa come fuga, svago, luogo di rigenerazione e di idealizzazione di un mondo in via di scomparsa.

La scelta di soggetti non più ispirati alla storia o alla mitologia, ma alla vita reale, anche quando non è direttamente dettata dall’impegno politico e sociale, non può prescindere dalla diffusione che il socialismo ebbe in quegli anni. Forse suggerita dal concetto di “committenza ideale” delle masse e delle classi più umili – che sembrano rivendicare un posto nella storia – si va affermando la preferenza per soggetti ispirati alla vita e al lavoro di operai, bambini di strada, donne di servizio, ecc… come quella per supporti e linguaggi che potessero rivolgersi ad un pubblico sempre più vasto.

Gustave Coubert fu, a Parigi, un esempio paradigmatico di tutto questo. Artista con le idee chiare, deciso a rappresentare il ‘vero’ attraverso la natura, senza condizionamenti di sorta, a fare “arte viva” attraverso la quale poter esprimere la propria visione del mondo, fu fortemente criticato dai giudizi dei conservatori, che definirono i suoi lavori con aggettivi quali ‘sconcio’, ‘ignominioso’, ‘indecente’. La peculiarità della sua sfrontatezza era in particolare quella di utilizzare tele molto grandi – in genere riservate alla pittura ‘alta’, in particolare di materia storica – per soggetti volgari. In ogni caso il suo realismo lasciò solchi profondi nella Parigi di fine Ottocento e, in particolare, influenzò quel gruppo di giovani artisti che vennero appellati ‘impressionisti’ in tono dispregiativo, ma che non a caso nei primi tempi della loro produzione erano piuttosto considerati dei naturalisti.

E' in questo periodo che dalla mano di Renoir – membro appunto del circolo degli impressionisti –, nasce il Bal au Mulin de la Galette.


Pierre-Auguste Renoir, Bal au Mulin de la Galette – 1876 – olio su tela – 131x175 cm – Parigi, Musée d’Orsay


Nell’immagine vediamo rappresentata una piazza cittadina affollata da uomini e donne che danzano e conversano. L’atmosfera è rilassata, i visi sono sorridenti. In primo piano un gruppo di amici sta seduto attorno ad un tavolino bevendo qualcosa – forse spremuta d’arancia – in bicchieri di vetro. Tra la folla, alcuni alberi fanno ombra sulla pista da ballo, ci sono dei lampioni spenti e, sullo sfondo, sotto una struttura coperta è intuibile una calca di gente. La piazzetta in questione si trova a Montmartre, presso il famoso mulino. La realtà della scena ritratta è avvalorata dalla presenza, tra il gruppetto di persone in primo piano, di alcuni amici dell’artista: il giornalista Lhote, un gruppo di artisti con il critico Georges Riviére ed il pittore spagnolo Don Pedro Vidal de Solares y Cardenas che danza con una giovane di nome Margot.

Il quadro mostra un tipico esempio della ricerca, avviata in quegli anni da Renoir e della Société anonyme des artistes peintres, sculpteurs, graveurs, etc…1, di una nuova forma percettiva e rappresentativa. Essa si otteneva essenzialmente dipingendo en plain air, tecnica grazie alla quale era possibile sperimentare un nuovo tipo di approccio alla resa pittorica degli effetti luce/ombra. E’ significativo il fatto che gli impressionisti realizzarono diverse opere vicino all’acqua o sulla neve, elementi naturali in grado di generare effetti luminosi particolari, ideali per lo studio dei giochi di luce. La peculiarità stilistica impressionista era quella di non utilizzare toni scuri per le zone buie dei soggetti ritratti. Dipingere all’aperto permetteva di cogliere infinite sfumature, ma, soprattutto, di rendersi conto che l’ombra non è una macchia scura, priva di colore, bensì una zona con una variazione di tonalità, in genere tendente al blu. Abbandonare le tavolozze scure ed i neri che abbondavano nelle opere accademiche rivelò la possibilità di ottenere ugualmente la tridimensionalità, ma attraverso l’impiego dei colori che, al tempo stesso, permettevano un risultato estremamente più luminoso. Osservando il Bal au Mulin de la Galette si ha una netta sensazione del benessere che le persone rappresentate possono provare riparandosi al fresco, sotto le fronde degli alberi che ombreggiano la pista da ballo. Renoir ottiene l’effetto della luce solare che filtra attraverso i rami delle acacie con pennellate di giallo e di arancio sparse sui vestiti della gente e sui loro cappelli e con screziature rosa e lavanda sul terreno che circonda gli unici due danzatori che si vedono per intero. Si ha quasi l’impressione del movimento di riflessi dato dall’ondeggiare delle foglie con la brezza.

La composizione segue una diagonale che va dal primo piano in basso a destra verso lo sfondo in alto a sinistra con andamento curvilineo. Le pennellate sono morbide ed allungate lungo linee verticali ed oblique e conferiscono all’immagine un bel senso di movimento. In sintonia con la visione veloce, distratta e non analitica della realtà, tipica della nuova società urbana, non troviamo cura per il dettaglio, già dal secondo piano i volti si confondono ed i contorni sono sempre meno definiti. Come in un’istantanea scattata in una situazione di movimento, i visi che sono colti fermi risultano a fuoco, mentre la gente che danza, parla o si gira, riesce mossa e quasi sfuocata. La sovrapposizione dei corpi ci lascia percepire l’accalcarsi della folla, soprattutto sullo sfondo, mentre le figure tagliate ai margini del quadro fanno intuire l’estendersi della scena oltre il limite rappresentato.

La frequentazione delle diverse forme di ristorazione fuori casa in Francia era, nel corso del XIX secolo, cresciuta in modo esponenziale insieme alla popolazione urbana. Basti pensare che se nella Parigi del 1830 esisteva un café ogni 116 abitanti, nel 1910 se ne poteva trovare uno ogni 82. Alla fine dell’Ottocento la capitale francese contava circa 3000 café ed oltre 2000 mescite.

Oltre ai café, luogo di ritrovo e di socialità borghese, ed alle taverne di frequentazione popolare, nel corso del XIX secolo si vanno affermando nuove forme di ristoro pubblico in accordo con le nuove esigenze lavorative, ma soprattutto extra lavorative. Si sviluppano molto – in particolare dal 1860 grazie alle innovazioni dei sistemi di refrigerazione – le brasserie, luoghi di produzione, vendita diretta e consumo della birra, in cui è possibile gustare qualche piatto caldo a prezzi accessibili anche alla piccola borghesia e agli studenti. Per comprendere meglio la rapidità con cui si svilupparono locali del genere, basti pensare che la prima brasserie di Parigi fu inaugurata nel 1847 e che già nel 1900 la scelta poteva spaziare tra 2500 locali. Le brasserie diventarono presto luoghi di convivialità e di ritrovo anche per scrittori ed artisti: il circolo impressionista usava, ad esempio, riunirsi attorno ai tavoli del Café Guerbois o del Nouvelle Athenes.

Nella Parigi di quegli anni aumentarono notevolmente anche i ristoranti ed i caffè popolari e si affermarono come luoghi di svago, distrazione e socialità le guinguettes, categoria alla quale possiamo ascrivere il Mulin de la Galette. Le guinguettes erano delle sorte di chioschi all’aperto, spesso situati in periferia o comunque in prossimità di corsi d’acqua, stagni o laghetti: sulle sponde della Senna era facile incontrarne2. Qui si poteva godere del fresco dell’acqua e degli alberi, danzare al ritmo di qualche piccola orchestra musicale e, a prezzi contenuti, si potevano gustare bevande di vario genere insieme a piatti freddi e caldi, ma la specificità erano i cibi locali ed in particolare le fritture di pesci d’acqua dolce. Frequentate inizialmente dai ceti medio borghesi, divennero dopo il 1906 – anno in cui fu istituita ufficialmente la domenica come giorno di risposo settimanale – luoghi ideali per le ‘scampagnate’ anche per le classi operaie, ed i più frequentati da chi voleva passare una giornata dimenticandosi del fragore e dei ritmi estenuanti della vita cittadina.

Il dipinto Bal au Molin de la Galette ben rappresenta l’atmosfera di gioia di coloro che si concedono una pausa dalle occupazioni quotidiane e testimonia la ricerca del benessere, l’allargamento del mercato e la democratizzazione dei consumi che caratterizzarono il XIX secolo.


Bibliografia

De Vecchi Pierluigi, Cerchiari Elda, 2003 [1991], Arte nel tempo. Dall’età dell’Illuminismo al Tardo Ottocento, volume 3, I tomo, Bompiani, Milano.

Bertelli Carlo, Briganti Giuliano, Antonio Giuliano (diretto da), 1992 [1988], Storia dell’arte italiana, volume 4, I tomo, Electa - Bruno Mondadori, Milano.

Appunti del ciclo di lezioni tenute da Jeanne Pierre Williot nel novembre 2007 presso la Maison di Sciences de l’Homme a Tours.

1 La Société fu fondata nel 1874 da Monet, Renoir, Sisley, Pissarro, Degas e Berthe Morisot, allo scopo di esporre le opere del gruppo in una mostra collettiva autorganizzata. Alla prima mostra ne seguirono altre sette a cui, però, non parteciparono sempre gli stessi artisti. Il Bal au Moulin de la Galette venne esposto per la prima volta nel 1877 in occasione della terza collettiva.

2 La Colazione dei Canottieri a Bougival – 1881 – olio su tela – 129x172 cm – Washington, Phillips Memorial Gallery – di Renoir è un perfetto esempio di guinguette lungo la Senna.