lunedì 11 gennaio 2010

Il cibo come merce e il ruolo della pubblicità


Nelle società cosiddette tradizionali i beni di consumo non solo erano sicuramente in un numero molto ridotto rispetto a quelli a nostra disposizione oggi, ma erano anche meno vari e «lontani». Nelle economie di sussistenza, infatti, lavoro, consumo e scambio erano strettamente legati fra loro ed i consumatori si servivano di oggetti di cui conoscevano perfettamente la provenienza ed il significato.
Nelle società contemporanee occidentali, invece, produzione e consumo sono diventate sfere specializzate e piuttosto separate e, spesso, ci pongono dinnanzi ad oggetti nuovi e sconosciuti, il cui significato ci sfugge.
Come sostiene Roberta Sassatelli, nel testo del 2004 Consumo, cultura e società (edito da Il Mulino, Bologna) «I messaggi pubblicitari e i vari aspetti della commercializzazione delle merci […] servono innanzi tutto a costruire intorno al prodotto un mondo di significati che lo renda effettivamente «consumabile», e cioè significativo per il consumatore»; come dire che se un prodotto è troppo lontano da noi, troppo sconosciuto, è anche 'troppo' inutile.
Il cibo è oggi innanzitutto una merce e come merce viene acquistato per le ragioni più svariate, fra cui il valore culturale a cui viene associato (salute, bellezza, divertimento, affemazione, aggressività, ecc...) e la relativa speranza che, per il principio di incorporazione (vedi post precedenti), consumando il cibo in questione quel valore venga automaticamente assorbito dal sé. «Il cibo è scelto per riflettere a se stessi e agli altri come ci percepiamo o come vorremmo essere percepiti» [Lupton, 1999, L'anima nel piatto, Il Mulino, Bologna].
In questa logica è di primaria importanza il ruolo della pubblicità come promotrice di sfere di significato connesse al bene immesso sul mercato. Quando scegliamo al supermercato una scatola di cioccolatini, una bibita o un minestrone surgelato fra tanti prodotti “uguali, ma diversi” non compriamo semplicemente un alimento, ma anche i valori ad esso associati come l’attrazione sessuale, la gioventù, la salute, l’energia, ecc…
Uno studio condotto dall’Università di Roma Tre [2007 In bocca al lupo. La pubblicità e i comportamenti alimentari dei ragazzi, indagine condotta dal Dipartimento di Scienze dell’Educazione Università Roma Tre in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia, Coptip, Modena.], ha dimostrato come ogni cinque minuti i bambini italiani subiscano, durante l’orario di fascia protetta 16-19, uno spot che li invita a mangiare qualcosa. La televisione sembra giocare sempre di più un ruolo essenziale nella mediazione simbolica della realtà rivolta ai bambini e ai ragazzi, andando a costituire per loro il vissuto più noto esterno alla famiglia. I giovanissimi si configurano sia come protagonisti sia come target privilegiato delle pubblicità: essi sono consumatori immediati, mediatori di consumi con gli adulti di riferimento e consumatori del futuro.
Gli spot televisivi vanno a delinearsi sempre di più come parte di quella che potremmo definire l’educazione (o diseducazione) alimentare dei consumatori del domani.
Il dato piuttosto allarmante emerso dalla ricerca riguarda il tipo di immaginario simbolico che viene associato a prodotti come dolci, cioccolato, medicine, biscotti e Fast Food – questi sono effettivamente i prodotti maggiormente promossi – incrociato con le statistiche che testimoniano una crescita sostanziale dei disturbi alimentari in fase evolutiva, come l’obesità infantile, il diabete, ecc… I valori condivisi su cui fanno leva gli spot italiani sono soprattutto la sicurezza e la semplicità, veicolate dalla prevalenza di contesti casalinghi, ed il divertimento, la felicità e l’entusiasmo suggeriti da atteggiamenti e modelli comportamentali riconducibili alla sfera ludica ed affettiva. Inoltre è da segnalare come la persuasione all’acquisto sia sempre meno concentrata sul prodotto in sé o sul marchio, si insiste piuttosto sull’acquisto come prova di appartenenza ad una comunità immaginaria. «Con lo spot viene proiettata un’immagine futura di come ognuno potrebbe essere grazie a quel prodotto» sostiene ancora la Lupton: attraverso l’incorporazione di un alimento reclamizzato, ci aspettiamo che i valori associati a quel cibo vengano automaticamente trasferiti dal nostro stomaco alla nostra identità.
Il consumatore, però, non è da considerarsi un attore passivo totalmente vittima dei media. Le più recenti teorie sociologiche sostengono che, sebbene fortemente influenzato, esso può, attraverso strategie attive, rielaborare, trasformare, risignificare e fare proprie le merci disponibili per lui sul mercato, contribuendo ad una costruzione della soggettività sempre più personale e variegata rispetto al passato. Certo è che, in un contesto di bombardamento mediatico come quello attuale, la coscienza critica va allenata e stimolata ancor più che in passato.

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