domenica 18 dicembre 2011

Liberi di imparare, educazione democratica e libertaria

Avete mai immaginato una scuola diversa?
Un'educazione diversa?
Magari una società diversa?


Irene Stella, autrice insieme a Francesco Codello della pubblicazione "Liberi di imparare" (ed. AAM Terranuova, 2011), racconta cosa significa educazione democratica o libertaria attraverso la sua esperienza di mamma e il suo incontro con alcune realtà educative italiane che si sono ispirate alla scuola di Summerhill di Alexander Neill.





Le parole chiave dell'educazione libertaria possono essere ritrovate già nell'indice del libro:


Introduzione
Capitolo 1 - Cos’è una scuola democratica
Le lezioni come scelta
La costruzione di regole condivise
L’assenza dei voti
Gli insegnanti e i genitori
I costi economici
Capitolo 2 - L’educazione libertaria tra pratica e teoria
Educare a essere
L’impossibilità di un curricolo generale
L’insegnante tra maestro, mentore e facilitatore
Metodi educativi
La comunità educante
L’apprendimento pluralistico e la molteplicità metodologica
La valutazione senza premi e castighi
Gli esseri speciali
Il genitore consapevole
Capitolo 3 - In viaggio tra le scuole democratiche: esperienze a confronto
Due esperienze europee
Capitolo 4 - La parola ai protagonisti
Insegnanti
Genitori
Capitolo 5 - Le realtà italiane
APPENDICI
Homeschooling
Leggi che regolano l’obbligo di istruzione in Italia
Bibliografia



Per saperne di più
http://www.educazionelibertaria.org/
http://www.mukti.it/



La questione non è semplice e non è banale, in un paese in cui la quotidianità pedagogica è sempre più avvilente.  
Può l'educazione libertaria contribuire a formare le nuove generazioni in una prospettiva nuova, di auto-realizzazione eppur di rispetto, convivenza e condivisione?  
La destrutturazione e la libertà totale di scelta si possono realmente tradurre in una capacità creativa e decisionale o piuttosto si rischia di lasciare i ragazzi in un limbo di relativismo fatto di troppe domande e nessuna risposta? 
Come si relazioneranno poi con un mondo fondato su presupposti completamente diversi? Ne usciranno schiacciati o sapranno contribuire al suo miglioramento? 
Elementi per argomentare una risposta potrebbero trovarsi in "After Summerhill", in cui sono raccontate le storie di alcuni ex allievi (purtroppo ancora non tradotto in lingua italiana). 
Spero che attorno alla questione possa nascere un dibattito e un confronto capace di coinvolgere tutti coloro che desiderano un mondo migliore in cui crescere.

domenica 20 novembre 2011

You are an organic dream constantly evolving

Varkala, Kerala. Foto di Daria Mascotto, 2011.

L'india è disseminata di perle di saggezza, lasciate lì, fra la polvere e sotto la pioggia. Assopite, in attesa di far brillare lo sguardo a un passante, di ispirarlo, entusiasmarlo, meravigliarlo, rincuorarlo, divertirlo. Per coloro che non vedono, restano mute.
Stanno scritte sui muri, o incorniciate sul cruscotto dell'auto, sotto l'altarino domestico con la foto del guru, così come sui cartelloni pubblicitari per turisti affamati di relax e spiritualità.
In ogni caso, alcune mi hanno colpita, mi hanno fatto sorridere o pensare, e sono rimaste.


Solo chi può immaginare l'invisibile, può realizzare l'impossibile.



Fort Kochi, Kerala. Foto di Daria Mascotto, 2011.

giovedì 13 ottobre 2011

Kolam, l'arte di unire con scie di riso

I Kolam sono da millenni un'ispirata forma di arte popolare tipica del Sud India e del Tamil Nadu in particolare. 
Un rituale giornaliero, prerogativa delle donne di casa che segnano con mano leggera e sicura sulla strada, davanti alla soglia d'ingresso, lunghe scie bianche intrecciate circolarmente. Le gambe dritte e tese, le schiene umili piegate e il braccio lungo che pendola come la proboscide di un elefante.

Donna che disegna un Kolam, Pondicherry, Tamil Nadu.
Foto di Daria Mascotto, 2011.
Il Kolam, come un sigillo segreto, è il segnale che dichiara la devozione degli abitanti della casa e invita le divinità benevolenti a visitarla. Come un amuleto apotropaico, allontana i poteri oscuri e gli sguardi maligni e favorisce il crescere dell'attributo a cui è legato simbolicamente, come prosperità, gioia, saggezza, salute o verità.

Tradizionalmente per tracciare i Kolam viene usata farina di riso, alimento sacro e cereale di civiltà per l'Oriente: in India è considerato fonte di vita e simbolo di prosperità per eccellenza in quanto base dell'alimentazione. Sovente è utilizzato come offerta alle divinità durante la puja, come dono fra i più preziosi e benaccetti. 
Di recente, a causa dell'aumento esponenziale dei prezzi dei cereali, alla pura farina di riso è stata sostituita una mistura contenente un'abbondante quantità di gesso.

La tradizione prevedrebbe inoltre un'associazione particolare tra Kolam e giorno della settimana, stagione, fase lunare e calendario religioso: ad ogni singola disposizione dei pianeti e degli Dèi, sarebbe associata infatti una rappresentazione simbolica specifica capace di svolgere propriamente la funzione di unire macrocosmo e microcosmo: attraverso la bellezza e l'armonia del gesto, lo spirito umano e l'incessante danza del mutamento universale si accordano in un unisono. L'arte e la conoscenza vanno per mano in India, perché l'una e l'altra hanno la potenza di facilitare l'unione di ciò che di divino vibra dentro e fuori di noi. Non è un caso, infatti, che anche i luoghi che accoglieranno cerimonie artistiche come spettacoli di danza o di musica, vengano decorati con Kolam. Anzi, la particolare potenza unificatrice dell'arte è sottolineata dalla presenza non di uno, bensì di molti Kolam realizzati in grande dimensione e arricchiti da fiori e candele e seminati lungo il percorso che conduce il pubblico dinnanzi allo spazio scenico, che ne viene letteralmente circondato.

Kolam benaugurale in occasione di uno spettacolo di danza, Pondicherry, Tamil Nadu.
Foto di V. Scalvini, 2011 
L'unione tra Brahman (universale) e Atman (individuale) è rappresentata nel Kolam dall'intreccio fra singoli puntini discontinui e linee continue che evidenziano il filo indistruttibile che lega gli elementi della creazione fra loro. Estremamente significativo è il materiale impiegato: un alimento, anzi l'Alimento per eccellenza in India. Ciò che "fa" l'uomo, il suo corpo, la sua identità e ciò che, con la morte, diventa ciascuno di noi: polvere (farina di riso equivale qui a polvere di riso, come dire, polvere di uomo), alimento per altra vita a venire.
Kolam è unione, legame. E' arte e conoscenza. Gesto e pensiero. Sacro e profano. Quotidiano e straordinario. Vita, morte e ancora vita.

Il significato antico, spirituale e occulto, di molti Kolam è purtroppo andato perduto, ma l'etimologia di questo nome rivela la stessa radice di "forma" o "maschera": un pizzico di qualcosa di sottile si cela e dimora dietro queste forme geometriche.
Anche se spesso non compresi, i modelli simbolicamente rappresentativi dei Kolam sono considerati in India un ponte fra la nostra esistenza fisica, mentale e vitale finita e l'infinito rinnovarsi.

***

Quest'estate, durante il mio viaggio in India, ho avuto la fortuna di trovarmi tra le mani le spiegazioni del significato di alcuni Kolam.
Le riporto di seguito con l'immagine accanto.




Mattu Kombu:
Corna di mucca nella forma del loto. 
Immagine usata prima e dopo il raccolto.
La mucca stessa è un'antica immagine vedica che simbolizza la luce spirituale.






Manoranjudham:
Un motivo di rampicanti stilizzati, il nome (mano = logica) suggerisce il desiderio di raggiungere poteri spirituali.










Parisathu:
Il fiore celeste del Mahabharata, il cui possesso simboleggia eterna gioventù.
Nel Sud India questo motivo floreale esprime ammirazione per la bellezza dei capelli delle donne.








Pagala Suradu:
Padala Suradu (recuperare dalle profondità).
Il motivo della rete si trova spesso nei pressi dei pozzi, ed è usato per recuperare vasi perduti.








Sree Herudahya Kamalam:
Il loto del cuore.








venerdì 23 settembre 2011

L'altro giorno ho visto un gatto morire

Raramente ci capita di incontrare la morte per strada.
Per quanto possa sembrarci assurdo, se paragoniamo le nostre città a quelle indiane, ad esempio, le riscopriremo improvvisamente pulite, profumate e ordinate. 

Strade di Mamallipuram, Tamil Nadu. Foto di Daria Mascotto, 2011.

A partire dal XIX secolo le innovazioni igieniche in campo alimentare hanno portato all'espulsione graduale e sistematica di morte e decomposizione dalle nostre città. 
Una data per tutte, 1810: espulsione dei macelli dalle mura di Parigi, fra le prime capitali europee ad adottare questo tipo di misure sanitarie, allo scopo di ridurre malattie e infezioni e per consentire un maggiore controllo sulla qualità delle carni.



Non l'acredine della fogna, non la puzza della verdura che marcisce al sole, non l'urlo degli animali accompagnati al macello. Lentamente l'idea che tutto può essere congelato nel nostro frigorifero ultimo modello si sostituisce alla consapevolezza che tutto va e viene. Gli animali non sono più nostri compagni, non vivono più in mezzo a noi, sporcando di sterco le nostre strade, portando con sé mosche e odore di cuoio e stalla. 
La mucca è nel nostro immaginario una signora gentile, magari dal manto lilla, che vive serena e indisturbata fra le verdi montagne svizzere. Non è la stessa cosa che mangiamo! No di certo.
Noi non mangiamo animali, ma bistecche. In loro non c'era vita, non l'abbiamo mai vista. C'è solo un pallido residuo di freddo rosso, avvolto in plastica trasparente e appoggiato sopra un bianco vassoietto croccante. Non c'è nulla di tremendo in questo. Non c'è la morte in questo. Non c'è la separazione, non il sacrificio.
La morte è in esilio, ben rinchiusa oltre le porte del quotidiano. Se ne occupano specialisti del settore. Medici e veterinari. Per tutti gli altri vale la regola: non invecchieremo mai, non moriremo mai. D'altra parte niente ci induce a crederlo.

Eppure, alle volte, l'ineluttabile si rivela con tutta la sua potenza. Il tempo divoratore si para dinnanzi ai nostri occhi impotenti e ci lascia disarmati e piccoli come granelli di polvere.


Sembrerà sciocco, ma l'altro giorno ho visto un gatto morire per la strada.
Era una giornata splendida. Di quei cieli settembrini tersi e larghi, azzurri. Il sole ancora caldo, dalla luce non più bianca, estiva, ma autunnale, aranciata. Una meraviglia.
Esco in bicicletta e mi lascio svegliare dall'aria freddina, fino alla metropolitana rossa, che mi porterà dall'altra parte di Milano.
Lego la bici e voltando la testa i miei occhi vedono una scena che la mia mente non intende immediatamente, ma solo dopo alcuni secondi che mi sono parsi secoli.
In mezzo alla strada c'è un gatto bianco con la schiena tigrata di grigio che si rotola, stira le zampe, le allunga, come in un attacco di epilessia. 
Continuo a guardarlo perché non capisco. Ad un certo punto intravedo il rosso vermiglio sul suo muso e istintivamente mi salgono le lacrime fra le palpebre e mi guardo intorno in cerca di aiuto. 
Tocco il braccio di un ragazzo con le cuffie sulle orecchie. Lui se le leva e guarda. "Non c'è un veterinario qui vicino?". (Pazzesco, ma nessuno osa toccare il gatto. Prenderlo, toglierlo dalla strada!)
Vado a chiedere. Nessuno mi dà troppo attenzione, così torno. 
Lui ha smesso di muoversi. Ha gli occhi spalancati e il muso in una pozza di sangue scuro e ancora vivo. Mi copro la bocca con le mani, non possiamo più fare niente. (Come se mai avessimo potuto fare qualcosa.) 


Kartari mukha mudra - marana hasta (morte).
Daria Mascotto


Un altro ragazzo si avvicina, il primo deve andare a lavorare. Andiamo insieme a cercare la portinaia del palazzo di fronte. Anche io devo andare a lavorare, ma non possiamo lasciarlo lì, così. Eppure non possiamo nemmeno toccarlo (paura di essere contaminati dalla morte?), non è neppure il nostro gatto, in fondo. 
La portinaia sentenzia: "Bisogna chiamare l'AMSA". Specialisti della decomposizione.
Se ne occupa lei, possiamo stare tranquilli. Forse mi vede un po' sconvolta, perché mi suggerisce, prima di tornare alla mia vita normale, di bermi un bel caffè (per dimenticare?). Chissà che strano potere ha il caffè...

giovedì 8 settembre 2011

Il rumore della luce

8 luglio 2011. Sveglia alle sei. Tuk tuk fino alla stazione dei bus.
Al mattino presto Pondicherry è ancora una cittadina tranquilla e quasi silenziosa.

Bus Pondicherry-Chidambaram. Foto di Daria Mascotto, 8 luglio 2011.

Solo il giorno prima le strade buie e disseminate di ostacoli, i clacson continui e la mia improvvisa incapacità di attraversare la strada, le tempie pulsanti per la stanchezza e gli sbalzi termici fra l'hammam esterno e l'aria condizionata a temperature artiche degli interni, mi avevano fatta sprofondare in una disperata voglia di non essere mai partita.
Disagio da straniera e mille paure all'assalto dei miei pensieri.

Prendo posto accanto all'autista, sul sedile del controllore. Ma ancora non lo so.
Sono in India da neanche due giorni.
Due ore di sballottamenti, strombazzamenti da sirene di transatlantici e lacrime mute di lontananza.

Arriviamo. Chidàmbaram è caotica e caldissima ormai: sono già le 10 e il solleone è alto e terribile.
Ci avviamo al Nataraja Mandìr - tempio di Shiva, re della danza - fra le puzze indiane.
Entriamo, sudate e spaesate.
Ci sono molte persone, molti pellegrini dai gesti sconosciuti. 
I brahmini shivàiti chiacchierano nel primo recinto. Sono subito riconoscibili dalla jata, i capelli raccolti a cipolla in cima al cranio e rasati per metà, da sopra le orecchie alla nuca. Sembrano tanti gabber in attesa del rave mistico. Tutti con il cellulare in mano o infilato nel dhoti. Ecco, la tecnologia onnipresente ci ricorda che non siamo precipitate in un mondo parallelo e medievale: siamo proprio nel XXI secolo.

Il tempio è ombroso, cupo.
La gente attende davanti al pràkara più interno e sacro il momento della puja di mezzogiorno. Siede, chiacchiera, intreccia ghirlande di fiori. Oppure compie il giro dei tanti cantucci che ospitano i membri della sacra famiglia del Nataraja -  Ganesha, il dio elefante; Pàrvati, la figlia della montagna. Nandi, il toro sacro - e a ciascuno offre doni, sperando di essere ricambiata.

Siamo le uniche occidentali e tutti ci osservano curiosi almeno quanto noi osserviamo curiose loro.
Incontriamo un solo ragazzo francese, disorientato pure lui.

Gopuram Est, Nataraja Mandir, Chidambaram.
Foto di Daria Mascotto, 8 luglio 2011.
Fuori dalla seconda cerchia di mura, nel primo cortile, il sole è abbagliante. Le pietre su cui camminiamo scalze, sono specchi roventi che riflettono la luce che vibra intensamente dall'alto e dal basso, assordandoci.
Tra mezzogiorno e trenta e le quattro il tempio si richiude nel suo ombroso silenzio per il riposo pomeridiano, lasciando i devoti in balìa del frastuono di Surya e dei suoi cavalli infuocati. Tutti cercano tregua tra le colonne più ariose, per mangiare o dormire in terra.

Siamo alla deriva in un oceano di luce. 
Eppure dobbiamo apparire molto buffe, strambe come siamo: bianche vestite all'indiana che ripassano coreografie di Bharata Natyam nell'attesa che si riaprano le porte. 
Qualcuno viene a parlare con noi. Ridiamo tanto, in una lingua franca non verbale, mischiata a inglese e tamìl. Rientriamo così nel palazzo di Shiva di buon umore. Anche la luce è cambiata. Il sole è sceso lasciando l'aria più quieta.
La danza del tempio ricomincia. Nuove ghirlande, nuove carezze di curcuma e ghee, nuovi saluti ad Agni a mani giunte. 
Nuova attesa. Nuova presenza. Nuovo stare. 
Ecco cosa dobbiamo imparare dall'India, questo luogo così lontano da tutto ciò a cui siamo abituate. A stare. Stare al centro, mentre tutto intorno vortica di opposti.
In equilibrio tra l'entusiasmo e la disperazione, tra il silenzio dell'ombra e il rumore della luce.

Sulla carretta del ritorno cantiamo e danziamo, sporche e sudate, meno sole.

lunedì 5 settembre 2011

Gana Vandanam

Seguire la via del Bharata Natyam Yoga è la costante ricerca del dare ritmo alle emozioni.

Il suono di Siva fa fremere il petto e gli occhi si spalancano.
Il tala nei piedi rapisce la mente.
Il sonno e la luce balenano insieme.
Il tintinnio delle cavigliere e i colori delle vesti sono gioia che trabocca.
Grazie a tutti coloro che, ancora oggi, vivono vibrando.
Aum.


Shiva Nataraja, particolare. Foto di Daria Mascotto, 2011.