domenica 13 dicembre 2009

Gusti e disgusti: gli alimenti estremi


Mangiare non significa solo masticare, ingoiare e digerire, ma anche incorporare. Insieme ad un alimento introduciamo nel nostro intimo credenze, valori, simboli e forze invisibili che hanno potere attivo sulla realtà che ci circonda. Esistono degli alimenti il cui valore simbolico è a tal punto superiore al loro valore in quanto semplici fonti di nutrimento, da renderci disponibili ad “assumerci dei rischi” che normalmente non ci assumeremmo.
Il mercato degli “alimenti estremi” è più vasto di quanto si creda e l’interesse che circonda questo affascinante argomento ha fatto sì che, durante il congresso Le bon produit existe-t-il?, tenutosi a Tours il 30 novembre e 1 dicembre 2007, un nutrito gruppo di persone abbia partecipato all’atelier Ni bons, ni mauvais: les aliments extrême.
Eravamo appunto una ventina di curiosi, attirati dal titolo enigmatico dell’atelier ed ignari di che cosa ci sarebbe stato proposto. Jean-Michel Durivault, nostro anfitrione, dopo averci accolto calorosamente all’ingresso dell’Istituto di Degustazione, ci ha fatti accomodare attorno a tavoli disposti a ferro di cavallo, in modo che tutti potessimo vedere lui, ma al contempo, guardarci tra di noi. Subito siamo stati avvisati del fatto che il laboratorio sarebbe stato ripreso da una telecamera.
Durivault sembrava divertirsi a creare un’atmosfera di tensione tramite la musica che aveva scelto come accompagnamento e l’atteggiamento misterioso che assumeva. Dopo aver introdotto l’argomento del pomeriggio, gli “alimenti estremi” per l’appunto, ci ha informati del fatto che sarebbe stato un laboratorio attivo in cui ognuno di noi avrebbe partecipato. Immediatamente abbiamo intuito che ci sarebbe stato da assaggiare qualcosa di insolito. Ci guardavamo in faccia perplessi, ma sorridenti, in bilico tra la paura e la curiosità. Eravamo in una situazione protetta, certo, nulla di male poteva succederci, ma al contempo il terrore di dover mangiare chissà quali stranezze era forte.
Il primo alimento ci è stato presentato dal cuoco giapponese che lo aveva già preparato.
Il fugu è un pesce estremamente pregiato e costoso, che richiede una lunghissima preparazione ed un savoir-faire particolare. In Giappone esiste una vera e propria prova di abilitazione per poterlo cucinare al pubblico, anche perché, se elaborato in modo non corretto, il pesce palla è mortale: il suo corpo, non espellendo le tossine, contiene in sé una sorta di curaro, veleno capace di portare alla paralisi degli organi vitali. Superando la nostra neofobia in nome della conoscenza, assaggiamo il sashimi di fugu.
Nessuno si sente male, ma nessuno rimane estasiato dal gusto del prelibato pesce: non è il gusto, infatti, a rendere questo alimento un prodotto estremamente richiesto e profumatamente pagato dalle più alte classi giapponesi, ma la presa di rischio che comporta il mangiarlo. Non è la qualità organolettica ciò che conta nel caso degli “alimenti estremi”, bensì il loro valore simbolico, in questo caso il gioco della vita e della morte.
La seconda cosa che abbiamo degustato è stata un’acquavite lasciata macerare per tre anni con immersa nel suo liquido una vipera intera, come una sorta di reperto scientifico in formalina. Anche questa volta il sapore non era niente di incredibile: sapeva molto di alcool e poco di vipera; ma chi mai potrebbe dire che sapore ha la vipera, non avendola mai assaggiata?
Il terzo “alimento estremo” è quello che più ha disgustato le persone a cui ho raccontato la mia esperienza, forse perché difficilmente riusciremmo a trovare un cibo carico di significati simbolici e culturali quanto il latte materno. Esso è il primo contatto vitale con la madre, è il primo alimento di cui ci nutriamo, è stato caricato di virtù medicali, è creatore di figliolanza e di fratellanza – secondo la religione islamica, ad esempio, sono da considerarsi fratelli coloro che hanno bevuto il latte dalla stessa donna, anche se non sono stati partoriti dallo stesso grembo – ed ora è anche un ingrediente di preparazioni culinarie. Il latte che abbiamo assaggiato proveniva infatti da un’azienda – una sorta di banca del latte, con tanto di donatrici anonime – che produce anche formaggi di latte umano. Un’assurdità se pensiamo a quanto siano qualitativamente superiori dal punto di vista organolettico il latte di capra, di pecora o di vacca!
In seguito ci è stato offerto un piatto di fiori, segno di pace.
Quando noi spettatori/attori eravamo ormai rilassati e decisamente neofili, un nuovo problema ci è stato posto: assaggiare alcuni preparati semiliquidi di uso medico, alicamenti ipernutrienti che vengono somministrati per naso o direttamente nello stomaco alle persone che non riuscirebbero a mangiare altrimenti.
La pappa per gatti spalmata su fettine di pane è stata l’unica cosa che io non sono riuscita ad assaggiare: “Va bene tutto, ma io non mangio le stesse cose che mangiano i gatti!”, mi sono detta.
Infine abbiamo assistito ad una scena particolarmente pulp: un assistente di Durivault, mentre questi era intento a soffriggere nel burro un cipolla, si è fatto prelevare del sangue da un’infermiera complice. Il sangue è stato messo in una ciotola e poi in padella. Una volta rappreso è stato servito al donatore che, davanti ai nostri occhi spalancati, lo ha mangiato in un atto di autocannibalismo. Il sangue, forse ancor più del latte materno, è simbolo di vita, di forza ed è, per queste ed altre ragioni, oggetto di interdizioni e restrizioni in molte culture.
Aldilà di quest’ultimo caso, davvero estremo, se rapportiamo quanto detto con il triangolo mangiatore-alimento-situazione, possiamo concludere che, nel nostro caso, i comportamenti neofili e neofobi sono stati influenzati più che altro dalla situazione: immagino che a pochi sarebbe venuto in mente di assaggiare la pappa del proprio gatto per allargare le proprie possibilità alimentari, a meno di non trovarsi in stato di emergenza. Personalmente non avrei mai ordinato al bar un’acquavite alla vipera per pura curiosità. Invece, in un contesto didattico/scientifico, le nostre paure alimentari sono state guidate in un percorso conoscitivo protetto, capace di stimolare un’apertura che nella quotidianità è sicuramente dettata da altri fattori.
L’industria alimentare e la globalizzazione hanno reso l’uomo contemporaneo, appartenente alla cultura cosiddetta occidentale, preda di una sorta di schizofrenia alimentare che oscilla tra una neofobia quasi paranoica, secondo la quale possiamo fidarci solo del cibo che crediamo di conoscere – quello che cuciniamo noi, di cui crediamo di conoscere la provenienza e il modo in cui è stato prodotto e lavorato, ecc… – ed una neofilia esasperata, che ci spinge a provare di tutto, oltre i nostri limiti culturali.
Se l’educazione dei nostri nonni, che hanno vissuto durante la guerra, prevedeva che bisognasse mangiare quello che c’era senza fare storie, adesso possiamo permetterci di essere disgustati davanti ad un piatto di barbabietole o di rognone ed allo stesso tempo di andare alla ricerca di esotismi come la carne di canguro o come le cavallette. A livello nutrizionale non fa per noi molta differenza inserire o togliere dalla nostra dieta cavallette o barbabietole, ma a livello simbolico e sociale incorporare carne di canguro non ha lo stesso valore che ha incorporare barbabietola.
Anche se non tutti possiamo permetterci di cenare ogni sera in un ristorante etnico diverso o da grandi chef che propongono menù a base di fugu, è innegabile che si sia verificata un’estensione di un modello alimentare che prende le distanze dal concetto di cibo come carburante ed aumenta la riflessività su di esso e sulle conseguenze della sua incorporazione. E’ innegabile altresì che questo sia il modello di riferimento per quanto riguarda le nuove forme della neofilia e neofobia alimentare.

3 commenti:

  1. mi è tornato in mente di quando a 5 anni, un giorno che ero all'asilo, ho assaggiato la mia cacca (non ridete! l'ho fatto davvero e il mio io bambino aveva una ragione precisa e serissima). ero curiosa... entrate per un momento nello spirito del bambino...

    mi dicevo: ma chissà se questa cosa che puzza così è anche cattiva... magari è buona invece... l'unico modo per saperlo è provare...

    beh... non grande cosa veramente... non sa di niente per quel che ricordo.

    penso che l'idea sia la stessa. ognuno si costruisce una scala di mangiabilità personale, ma molto influenzata dalla società...

    ah... quanto alla pappa per gatti... ci ho pensato più volte di assaggiarla quando ero bambina e avevo i gatti a casa. confesso che ogni tanto ci penso tuttora, ma non lo ancora fatto. penso che anche lì sia una questione di odore soprattutto. puzza troppo... ma non è detto che sia cattiva...

    forse un giorno, quando avrò di nuovo un gatto... (di certo non me la compro apposta!).

    buoni assaggi a tutti

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  2. Chiara, sei davvero una neofila coi fiocchi!
    Complimenti, molto coraggiosa.

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  3. neofilo? No: non mi stimola il desiderio di provare nuovi sapori nè nuove sensazioni d'altro tipo attraverso il cibo. neofobo? Nemmeno: se da un lato non mi entusiasma la proposta di alimenti che escono dalle mie abitudini, dall'altro non mi turba più di tanto. mi rendo conto che il cibo in questo periodo mi interessa solo come nutrimento e lo vivo solo come una necessità fisiologica, ogni altra dimensione accessoria mi disturba. Forse quello che mi dà più fastidio è proprio il vedere così snaturato oggi il rapporto dell'uomo con ciò che mangia. Gli eccessi della neofobia paranoica o dell'esaperata ricerca del nuovo mi fanno desiderare di tornare alle origini, a un rapporto più diretto, meno mediato dalla cultura, in un certo senso più essenziale e semplice con quello che si mangia. L'altro giorno mio figlio ha trovato una farfallina nell'insalata: tragedia. ho preso la farfalla e l'ho mangiata (sapeva d'insalata). Neofilia? No: solo fastidio per la reazione di mio figlio... Comunque la cacca non la mangerei perchè puzza troppo(il mio sangue sì, l'ho già assaggiato e sa troppo di ferro).
    è bello e interessante il tuo blog

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