L’alimentazione
è una necessità biologica ineludibile. A partire dalla constatazione che nutrirsi è pratica
quotidiana dell’uomo, notiamo tuttavia che le diverse società, nel corso
dei secoli e nelle tante regioni della terra, non hanno optato - e
continuano a non farlo oggi - in favore delle medesime scelte
alimentari. Potremmo anzi affermare che i diversi adattamenti
dietetici dell’uomo siano quanto di più vario ci sia sulla terra.
Il cibo, infatti, oltre a tradursi in energia per l’organismo,
costituisce uno strumento simbolico eccezionale che ben si presta a
segnare e distinguere identità (geografiche, culturali, sociali,
religiose, ecc…), tempi (settimanali, stagionali, annuali, rituali,
ecc…) e legami (affettivi, sociali, ecc…).
L'atto alimentare si colloca sul sottile confine tra natura e cultura.
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Offerta rituale sul Kauveri, Srirangam. Foto di Valeria Scalvini, luglio 2011. |
Le credenze
religiose sono tra i primi fattori ad influire sulle scelte
alimentari di una comunità: ne regolano tempi e modi, sanciscono
normative – cosa si può mangiare e cosa no – , catalogano gli
alimenti in commestibili/non commestibili, puri/impuri,
sacri/profani.
Nella
cultura indiana – dal periodo vedico sino alla contemporaneità –
il cibo è sempre stato un contenitore di significati particolarmente
fecondo. E’ l’ingrediente primario delle pratiche rituali e
cultuali, delle transazioni sociali, delle interazioni familiari, è
un evidenziatore delle barriere costituite dalle caste, è un
principio di classificazione e di riflessione teologica e molto altro
ancora. Esso permea letteralmente ogni aspetto del complesso e
sfaccettato mosaico culturale indiano.
Per quanto
riguarda lo studio dell’alimentazione applicato alle religioni,
l’induismo è un laboratorio inesauribile di materiale di ricerca.
Purtroppo in Italia l’analisi della cultura alimentare asiatica, ed
indiana in particolare, non è stata affrontata in modo sistematico
dagli studiosi. Le pubblicazioni specialistiche, perlopiù in inglese
e in tedesco, spesso non vengono neppure tradotte e sono di difficile reperimento. Per questa ragione mi è stato
estremamente difficoltoso raccogliere informazioni attendibili ed
esaurienti sull’argomento. Sono infatti riuscita ad entrare in
possesso solo di pochi articoli, che pur mi sembrano sufficienti per
dimostrare quanti significati siano veicolati attraverso il cibo
all’interno della cultura religiosa induista.
In
particolare vorrei illustrare l’esempio delle offerte rituali
(naivedya)
del Sud dell’India con l’intento di evidenziare come il cibo
possa arrivare a costituire una sorta di linguaggio di
comunicazione
tra uomini e mondo del sacro.
Io stessa, nel mio viaggio in Orissa nell’inverno del
2006-07 e nel più recente in Tamilnadu, Kerala e Karnataka nell'estate 2011, ho potuto osservare quanto l’importanza degli alimenti e
del loro significato sociale e religioso sia profondamente presente e
forte tuttora. Tuttavia le mie osservazioni, non essendo state
sistematiche, non possono essere qui oggetto di discussione. Spero
possano esserlo in futuro.
L’offerta
rituale come linguaggio
Quando un
fedele di qualunque religione prega, ritiene, o spera, che le proprie
parole sussurrate o pensate possano giungere all’orecchio di Dio.
Crede in qualche modo di comunicare con il trascendente. Allo stesso
modo, come ci hanno mostrato i grandi strutturalisti e linguisti del
Novecento, possiamo presumere che quando si offre del cibo agli Dei
si creda di trasmettere loro un messaggio chiaramente decifrabile.
In
India esistono innumerevoli varietà di naivedya,
ognuna delle quali è caratterizzata da diversi alimenti,
ingredienti, combinazioni, forme, colori, proprio come una frase può
avere elementi grammaticali e sintassi differenti.
Ad un
primo livello di lettura, l’offerta di cibo è la diretta
espressione della dedizione e dell’amore del devoto che accudisce e
nutre la divinità. Attraverso l’offerta, il fedele può
ringraziare la divinità per un dono ricevuto o può proporre uno
scambio per riceverne uno. Ad un livello più profondo la struttura
del naivedya
può rivelarci importanti informazioni circa l’identificazione di
divinità del pantheon e festività dell’anno sacro indù,
sottolineando ad esempio opposizioni tra Dei o gruppi di Dei, tra Dei
e Dee, tra eventi fausti o infausti.
Vorrei
soffermarmi proprio su queste due funzioni svolte dal cibo del
naivedya:
identificare e opporre.
Identificare
Lo
studio di una religione ha in genere inizio con l’esame delle
divinità e delle cerimonie che la caratterizzano. L’identificazione
delle molteplici figure divine che popolano l’induismo può essere
facilitata dall’iconografia, e questo vale specialmente per la
triade sacra principale (Brahma, Vishnu e Shiva con le relative
spose): ogni divinità possiede infatti attributi propri come
specifiche posture del corpo, un personale vahana
(veicolo), degli emblemi tenuti nelle mani, vestiti e ornamenti,
piante o fiori. Non tutti gli dei, però, possiedono un alimento con
il quale possono essere identificati e solo alcuni hanno preferenze
gastronomiche ben definite. Vediamone alcune.
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Palla di burro di Krishna, Mamallapuram. Foto di Daria Mascotto, luglio 2011. |
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Krishna danzante, Mamallapuram. Foto di Daria Mascotto, luglio 2011. |
Il
burro è certamente un indicatore di Krishna, uno dei più amati e
venerati avatara
(letteralmente ‘discese’, incarnazioni) di Vishnu. Tra le più
frequenti immagini iconografiche di Krishna nell’India del Sud
troviamo Balakrishna (Krishna bambino), rappresentato solitamente
mentre regge una ciotolina di burro nella mano sinistra e con la
destra se ne porta alla bocca una porzione. Il Krishna danzante è
invece generalmente raffigurato con una palla di burro nella mano
destra. L’associazione tra il burro e la figura di Krishna è
diffusa in tutto il subcontinente indiano e deriva presumibilmente
dal racconto mitico che vede il dio identificato con un pastore di
armenti. Un altro alimento a lui associato è il laddu
(un dolcetto di forma rotonda). Una popolare immagine di Balakrishna
lo ritrae mentre prende in mano un laddu
da un piatto di offerte posto davanti a lui.
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Ganesh, Hampi. Foto di Daria Mascotto, agosto 2011. |
Ganesh
(o Ganapati), Signore degli Ostacoli, figlio di Shiva e della sua
sposa Parvati, è considerato un gran mangiatore e gli sono accostati
diversi alimenti. Iconograficamente compare come un uomo con la testa
di elefante, una grande pancia rigonfia a testimonianza della sua
golosità e spesso nelle mani, tra gli altri simboli, troviamo
un’arancia selvatica, una canna da zucchero e una mela di bosco.
Questi tre elementi ricorrono nelle sue offerte. I devoti di Ganesh
affermano che egli ha una predilezione per le ghiottonerie, ed il
dolce modaka
compare nelle sue più comuni rappresentazioni. Esiste un mito che
mette in relazione Ganesh e Krishna proprio grazie a questo dolcetto:
Devaki, la madre di Krishna, un giorno pose un modaka
davanti ad un idolo di Ganesh. Conoscendo la golosità del proprio
figlio, lo tenne fermo dietro la sua schiena con una mano per evitare
che rubasse l’offerta. A quel punto, con grande sorpresa di tutti,
la statua di Ganesh prese vita e con la proboscide mise il modaka
nella bocca del bambino.
La dea
Lalita (una delle tante forme di Parvati) costituisce un caso
particolare, poiché non le sono associati cibi specifici solo in
funzione rappresentativa. Premettendo che recitare i molti nomi di
una divinità (sahasranama)
equivale nella tradizione induista a compiere un’offerta rituale,
notiamo che tra gli appellativi di Lalita compaiono nomi che
incorporano nell’identità della Dea i suoi gusti culinari (“Colei
che ama il latte”, “Colei che ama i cibi ricchi”, “Colei che
ama il riso mischiato ai ceci verdi”, ecc…). I cibi sono qui
parte costituente della divinità, non solo simboli di lei, ma veri e
propri elementi identificatori.
Non solo
l’identità di alcune divinità è strettamente legata agli
alimenti. Anche le ricorrenze festive hanno, infatti, le proprie
ricette caratterizzanti, utili a definire gastronomicamente e
simbolicamente ciascun giorno sacro e a scandire il calendario
dell’anno liturgico.
Molte
festività indiane sono direttamente collegate ad un essere divino
specifico ed in questi casi, se il Dio o la Dea hanno preferenze
alimentari definite, i manicaretti dell’occasione saranno conformi
ai loro gusti. Se la festa non è in onore di una figura sacra
particolare, allora i devoti possono scegliere di offrire naivedya
alle divinità legate alla loro famiglia, alla loro setta, regione o
quant’altro, in ogni caso ogni festa è connessa ad un cibo
specifico. Può capitare che tra i devoti prendenti parte ad un
festeggiamento non sia ben chiaro quale sia la divinità da onorare,
ma non c’è mai alcun dubbio sulla ricetta da realizzare. La festa
del Tirvatirai
in Tamilnadu alle volte è detta essere in onore di Shiva e a volte in
onore di Parvati, ma l’offerta rituale resta in entrambi i casi un
pasticcio a base di riso dolce, il kali.
Sempre in Tamilnadu il primo giorno del festival del raccolto
(Ponkal) è
chiamato Bhogi e non è in onore di nessun Dio. Ciononostante tutti
coloro che partecipano ai festeggiamenti sanno perfettamente quale
cibo debba deve essere preparato ed offerto alla divinità tutelare
di ciascuna famiglia: il poli
(un dolce ripieno).
Opporre
La tendenza
a suddividere la realtà che ci circonda in opposizioni binarie
sembra essere presente in tutte le società umane. Nella religione
induista possiamo distinguere altresì numerose coppie di opposti e
complementari come ad esempio la distinzione tra puro e impuro, tra
divinità maschili e femminili, tra Shiva il distruttore e Vishnu il
conservatore, tra eventi fausti ed eventi nefasti. Ovviamente le
coppie antitetiche non si esauriscono qui, ma nel caso di queste
quattro opposizioni in particolare i devoti di tutta l’India si
troverebbero concordi nell’affermare che ad esse debba
corrispondere una distinzione dal punto di vista alimentare.
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Shiva, Madurai. Foto di Daria Mascotto, luglio 2011. |
La
separazione tra divinità pure e divinità impure
non è solo sottolineata dalle offerte rituali, ma ne è in qualche
modo determinata. Le divinità pure accettano solo offerte
vegetariane e il più delle volte sono considerate benevolenti e
pertanto meritevoli di essere propiziate con il naivedya.
Al contrario quelle impure, assetate di sangue, amanti della carne,
dell’alcol, del tabacco e dell’hashish, sono portatrici di
sciagure e di malattie e perciò indegne di alcuna offerta
propiziatoria. Esistono casi di ambiguità. Shiva, ad esempio,
corrisponde al principio disgregativo dell’universo, alla forza
centripeta che tutto dissolve, ma che allo stesso tempo prepara il
cosmo alla creazione successiva. E’ dunque sì una divinità
terrifica, ma che può dispensare anche grande gioia e soprattutto
può portare i suoi fedeli alla moksha (liberazione). La tendenza è perciò quella di adorare il suo aspetto
benevolo,
ingraziandolo con offerte vegetariane.
La
distinzione tra divinità pure e impure può essere espressa anche
semplicemente alterando un singolo elemento di un’offerta identica.
Nei templi di Udipi, in sud Karnataka, di Shri Janardana e Mahakali
sono adorati, nel primo, il puro Dio Vishnu e, nel secondo, l’impura Dea Kali. A parte i sacrifici di sangue offerti a Kali e ovviamente
non a Vishnu, i naivedya
portati dai fedeli sono perlopiù gli stessi: piatti vegetariani a
base di riso in entrambi i casi. Tuttavia una distinzione c’è: il
riso preparato per Vishnu dev’essere grezzo e cotto, mentre a Kali
è consacrato tendenzialmente del riso parboiled. Questo tipo di
distinzione sancisce non solo la purità/impurità delle divinità,
ma stabilisce tra le due una gerarchia. Il riso parboiled è infatti
considerato un cibo quotidiano, profano, mentre quello grezzo
contiene un elevato grado di sacralità, in quanto viene tipicamente
impiegato in occasioni cerimoniali.
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Vishnu, Pondicherry. Foto di Daria Mascotto, luglio 2011. |
L’opposizione
che vede da una parte divinità femminili e dall’altra divinità
maschili nel pantheon induista non è così netta come quella tra
pure ed impure. Spesso le Dee sono infatti assimilate agli Dei in
quanto loro spose, ed entrambi vengono venerati in un unico culto
come potenza fecondatrice virile e potenza generatrice femminile. A
testimonianza di questa tendenza ad unire marito e sposa in un unico
principio cosmico si veda la figura di Ardhanari (per metà uomo/Shiva
e per metà donna/Shakti). Gli Dei e le loro spose ricevono perciò
generalmente le medesime offerte rituali, le differenze sono spesso
di ordine quantitativo più che qualitativo e sottendono una
classificazione di tipo gerarchico. Differenze qualitative possono
tuttavia comparire talvolta. Nel tempio di Srirangam, in Tamilnadu,
in aggiunta alle offerte che Vishnu e Lakshmi condividono, l’appam
(un dolce fritto) è riservato allo sposo e la pittu
(un dolce legato con lo spago) è riservato alla sposa.
Vishnu
e Shiva sono le due figure sacre principali dell’induismo. Le sette
vishnuite e shivaite, pur non essendo a livello teologico
diametralmente opposte, si contendono il primato per numero di devoti
in India. Ci si aspetterebbe un’altrettanto forte opposizione
alimentare tra le offerte consacrate alle due divinità. Una
contrapposizione viene esplicitata dai sacerdoti, in genere, quando
un naivedya
ordinario non compare nel tempio di uno dei due Dei. I brahmini
tendono a motivare il fatto sostenendo che il cibo mancante sia
l’offerta tipica del dio rivale. La natura più benevola di Vishnu
trova riscontro solitamente in naivedya
sontuosi ed elaborati, mentre a Siva, duplice poiché potenzialmente
terrifico e distruttore, sono riservate offerte più frugali, spesso
a base di riso scondito. La distinzione tra la gentilezza dell’uno
e il carattere più violento dell’altro è di frequente
sottolineata dalle spezie contenute nelle rispettive offerte: nelle
zone dell’estremo sud dell’India, né il peperoncino verde né
quello rosso, i più piccanti, sono considerati accettabili per
Vishnu, al contrario Shiva mostra una predilezione per quello verde.
Come
abbiamo già visto nel caso delle divinità maschili/femminili, anche
per l’opposizione Vishnu/Shiva possiamo trovare piccole variazioni
distintive all’interno di un naivedya
identico. Il tempio di Tjakarayanagar, a Chennai, ospita gli idoli
delle due divinità in strutture separate, vishnuiti e shivaiti
rendono loro omaggio portando ad entrambe uenponkal
(riso speziato con ceci verdi) e riso con cagliata, ma il riso al
tamarindo in aggiunta è esclusiva di Vishnu mentre quello bianco
prerogativa di Shiva.
Più
in generale, possiamo affermare che l’offerta di cibo è
maggiormente frequente nei culti vishnuiti, mentre Shiva viene
blandito, più che con piatti sontuosi, con abbondanti abhiseka
(unzioni e abluzioni dell’idolo – che comunque coinvolgono
sostanze alimentari).
Quando
si tratta di esprimere la gioia per un avvenimento fausto piuttosto
che la tristezza per uno nefasto il cibo ricopre un ruolo importante.
L’opposizione cerimoniale tra le due tipologie di eventi,
implicante anche concetti come purità/impurità, è normalmente
espressa attraverso colori o fiori con significati simbolici
contrastanti. Nei rituali del caso, specifici alimenti fanno la loro
comparsa. Un esempio per tutti: lo sraddha
è una cerimonia funebre praticata dalle caste più alte ed include
l’offerta di pinda
(letteralmente ‘palla’, si tratta di una palla, appunto, di riso
cotto). Il significato della parola pinda
è a tal punto associato all’evento luttuoso che, per quanto il
termine sia generico, non compare mai in riferimento a nessun altro
cibo di forma rotonda. Allo stesso modo, nessuno userebbe mai grani
di sesamo nero per festeggiare una ricorrenza felice. Il sesamo nero
è infatti un alimento considerato indicatore rituale di eventi
negativi. In Karnataka la melanzana non dev’essere mai usata per
uno sraddha,
probabilmente per non legare un vegetale così tanto utilizzato nella
cucina locale all’idea d’impurità connessa al funerale. Per la
stessa ragione gli alimenti tipici dello sraddha
sono inaccettabili come offerte per le divinità.
Per concludere
In questo
breve testo ho cercato di esplicitare attraverso alcuni esempi
insoliti quanto cibo e credenze siano intimamente interconnessi. Mi
rendo conto di aver scelto un’area religiosa estremamente complessa
e variegata, che certamente non ho potuto trattare con completezza né
esaustività. Il politeismo induista, a causa delle difficoltà
oggettive inevitabilmente connesse alla trattazione delle sue
innumerevoli forme e varianti locali, della sua profondità teologica
e filosofica e della sua storia millenaria, è spesso, per timore o
per rispetto, taciuto. Tuttavia il mio intento non era certo quello
di affrontare l’analisi di un intero sistema religioso, ma, più
semplicemente, quello di riflettere su quanto gli alimenti siano
contenitori simbolici estremamente efficaci, adatti ad identificare,
omaggiare, ricordare, rappresentare, distinguere divinità e
festività, a segnalare le loro caratteristiche e peculiarità
all’interno di un contesto religioso come quello induista.
Mi
sono soffermata sulle funzioni, svolte dal naivedya,
di identificare ed opporre.
L’offerta
rituale ci mostra come proprio l’impiego di specifici alimenti sia
radicato nel pensiero religioso del devoto, che conosce le preferenze
gastronomiche delle divinità, i tempi, i luoghi e le quantità in
cui determinate ricette devono essere preparate e con quali
ingredienti. Per quanto riguarda i ritmi festivi, paradossalmente,
abbiamo visto come possa essere un alimento a definire una festa
sacra, ancor più che la divinità protagonista dei festeggiamenti, o
come il legame tra un cibo specifico ed un’occasione cerimoniale
possa essere saldo a tal punto da impedirne l’impiego in qualunque
altra situazione. Insomma, il devoto sa cosa il Dio gradisce e cosa
non accetta, e che comunica con lui, come in una preghiera,
attraverso un linguaggio simbolico veicolato dagli alimenti.
Bibliografia
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